Lo scorso febbraio, quasi come fosse una profezia, avevo comprato il numero di Vita magazine “La casa possibile”. Mi interessava approfondire il tema perché io e il mio compagno stavamo già vivendo sulla nostra pelle quello che viene descritto in apertura di questo speciale:
Da anni il nostro Paese non ha una politica sulla casa. Risultato? L’abitazione nelle aree più dinamiche e attrattive del Paese è diventata un lusso anche per il ceto medio. Il rischio dell’effetto Londra e della gentrificazione è reale. Ma un’alternativa esiste.
Nessuno sapeva che, di lì a poco, sarebbe scoppiata una pandemia che, nella tragedia, avrebbe aperto anche delle opportunità.
Pare infatti che finalmente, nel 2020, le aziende italiane abbiano scoperto lo smart working e con esso i benefici che ne conseguono dal praticarlo: maggiore benessere per i lavoratori, minore inquinamento per spostamenti casa-ufficio che il più delle volte non sono necessari, risparmio per le aziende stesse sugli affitti di enormi spazi che oggi diventano obsoleti.
Grazie allo smart working, tantissime persone costrette ad abitare al nord per lavoro, sono potute rientrare al sud, dalle loro famiglie, e lavorare da lì. È così nato il movimento del south working: ragazzi, professionisti, manager, accademici che hanno dovuto abbandonare i loro luoghi d’origine e i loro affetti, per poter seguire le loro ambizioni professionali, e che oggi sono uniti dal desiderio di poter tornare a casa.
Io e Nicola (ndr il mio compagno) abbiamo la fortuna di poter lavorare da casa già da tanti anni. Io, titolare di un tour operator online, non ho necessità di avere una sede fisica. Lui, videomaker freelance, si sposta per fare le riprese e poi può fare la post produzione da dovunque voglia. Lui, calabrese, fa parte di quel gruppo di persone che viene descritta dal movimento del southworking. Dopo la laurea, ha infatti dovuto lasciare la sua terra per potersi realizzare professionalmente, vivendo in diversi paesi europei prima di approdare a Bologna, da me. Sicuramente queste esperienze sono state per lui utili e arricchenti dal punto di vista umano, ma oggi, a 42 anni, avendo la possibilità di poter scegliere da dove lavorare, vorrebbe farlo da casa sua. In riva al mare.
A questo, aggiungeteci il fatto che abbiamo vissuto il lockdown in un bilocale di 40mq in centro a Bologna e che in piena pandemia è nato il nostro bimbo: Enea.
Non appena hanno riaperto i confini siamo fuggiti a sud e lì abbiamo iniziato a chiederci dove avremmo voluto crescerlo. La risposta che ci siamo dati è stata: qui, a Soverato.
Qui perché avrebbe la fortuna di crescere al mare.
Qui perché l’aria è una delle più pulite d’Europa.
Qui perché possiamo andarci a rifornire d’acqua direttamente alla fonte.
Qui perché dopo anni che portiamo avanti il motto “vivere, viaggiare e lavorare ispirati”, forse è anche tempo di abitare ispirati! E, tornando alla questione d’apertura, qui c’è ancora una casa possibile. E quello che a Bologna spendiamo per un bilocale anni ‘60, senza balcone, qui abbiamo affittato un appartamento nuovo. Di 120 mq. Vista mare. Con terrazzo, pure sopra al tetto. E crepi l’avarizia.
Qui perché, da figlia di genitori siciliani dovuti emigrare a Bologna per lavoro, credo che il sud oggi possa offrire tante nuove opportunità. E, soprattutto, che meriti una nuova narrazione. Ciò che non funziona in meridione lo sappiamo benissimo tutti. È amaro vedere che ciò che funziona, a volte persino eccelle, non viene raccontato con altrettanta dovizia di particolari. Forse è tempo di riequilibrare alcune dinamiche a livello nazionale.
Infine, qui perché nella firma della mia mail ho da anni questa citazione di Prévert:
“Bisognerebbe tentare di essere felici, se non altro per dare l’esempio.”
E io, ad Enea, voglio insegnare prima di tutto a cercare sempre una strada per essere felice. E per essere libero. E di fronte al mare è già un buon punto di partenza per farcela.
Infine, last but not least, perché qui in Calabria i pomodori sanno di pomodori. E anche questo nessuno ve lo dice! Vi terrò aggiornati 🙂